Una parola in incognito

 Una parola in incognito

di Francesca Paglionico
La parola coviglia “semifreddo” rientra nel lessico in uso nella città di Napoli, eppure a conoscerne il significato tutt’oggi ne sono davvero in pochi. Invano si cercherebbe traccia della coviglia nei vocabolari della lingua italiana, poiché non è stata accolta né dal DEI (Dizionario etimologico italiano), né dal GDLI (Grande dizionario della lingua italiana); d’altra parte essa manca anche nelle opere lessicografiche napoletane e sembra che sia sfuggita o che sia stata ignorata anche da Galiani, Volpe, D’Ambra, Andreoli, Altamura.
Sorge allora implicito pensare, dato che si tratta, come abbiamo già detto, di un termine che rientra nel lessico napoletano, di ritrovarla nei dizionari dialettali. Ma l’omissione della stessa dai dizionari dialettali si può spiegare per la tradizionale attenzione che la lessicografia napoletana ha riservato ai testi scritti, in forza della implicita o dichiarata convinzione che gli usi meritevoli di attenzione fossero solo quelli certificati dalla letteratura. Ma a proposito di coviglia è da segnalare anche la mancata presenza della stessa in testi letterari. Una parola, dunque, in incognito. Il silenzio generale su questo termine fa sorgere il sospetto che esso dipenda da una percezione impropria, che avrebbe indotto i più, in primis gli autori di dizionari, a ritenere che coviglia fosse una parola italiana invece che napoletana: sarebbe infatti la terminazione in –iglia a rendere questo termine assimilabile, nonché affine, a tutta quella congerie di vocaboli italiani terminanti in –iglia, per effetto dell’esito anafonetico che giustifica la presenza di parole come famiglia, bottiglia, conchiglia, ecc., laddove le medesime voci napoletane, per effetto dell’esito opposto, ossia quello metafonetico, tipico di alcuni dialetti meridionali, come quello napoletano, sarebbe in –eglia (per es. butteglia).
Addentriamoci però, ora, nella storia etimologica di questa parola: allontanandoci però da accostamenti impropri che sono stati formulati, come quello che vede un legame tra coviglia e il verbo covigliare, che il GDLI rimanda al latino cubile “covile, covo”, per la incolmabile distanza semantica tra “covo” e “semifreddo”. Una proposta più convincente e altresì interessante sarebbe quella che accosta la parola alla base latina cupa che rinvia ad una tradizionale usanza di servire tale semifreddo in “bicchieri o coppe di metallo”. Se, come appare, la base cupa indica un recipiente, resta però ancora del tutto inspiegabile la veste poco meridionale di coviglia. L’anello di congiunzione tra cupa e coviglia è in realtà una forma diminutiva del castigliano cubo, tale cubillo o cubilla: un’influenza iberica,, dunque, per niente insolita per il lessico di area napoletana. I termini castigliani cubillo e cubilla entrati nel lessico di Napoli nel periodo del Viceregno spagnolo, designano, infatti, un contenitore, un recipiente passato a designare in tutt’uno il contenente e il contenuto, con uno spostamento metonimico per nulla raro, come provano i casi novecenteschi di coppa, coppetta o cono.

Mario Orlando

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